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Cronache della battaglia

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Un'intervista immaginaria a Gillo Pontecorvo, regista de La battaglia di Algeri (1966), rilasciata trent'anni dopo la vittoria del Leone d'oro a Venezia. Il film racconta il processo di decolonizzazione che ha portato all'indipendenza dell'Algeria dalla Francia nel 1962. La pellicola era stata commissionata proprio dagli algerini per celebrare la nascita della loro nazione. La conversazione ruota intorno a un telegramma inviato prima della proiezione di Venezia in cui il committente chiede al regista di eliminare una particolare sequenza giudicata sconveniente per i propri intenti. L'intervista si basa sull'immaginaria accettazione della richiesta, quando nella realtà Pontecorvo si era rifiutato di accogliere questa proposta.

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Fondo Gillo Pontecorvo

Cronache della battaglia

Il presente lavoro prende spunto da un documento custodito all’interno del fondo
“Gillo Pontecorvo” dell’Archivio storico del Museo Nazionale del Cinema di Torino e
legato alla storia del capolavoro del celebre regista,
La battaglia di Algeri (1966): un
telegramma inviato a Pontecorvo pochi giorni prima della proiezione del film alla
Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, con cui la Casbah Film, casa di
produzione algerina che aveva coprodotto la pellicola, chiese che venisse tagliata una
scena giudicata scomoda. Pontecorvo si rifiutò e il film fu presentato includendo la
celebre sequenza di un bambino che mangia un gelato, inquadrato per pochi secondi
prima dell’esplosione di una bomba algerina in una caffetteria frequentata dai
“colonizzatori” francesi.
Questa intervista immaginaria parte da un interrogativo: e se il regista avesse fatto
una scelta diversa?

Roma, settembre 1996.
Trent’anni dopo il debutto cinematografico de La battaglia di Algeri
il film è ancora un cult
nella mente di molti. Ma il regista, Gillo
Pontecorvo, vuole togliersi un sassolino dalla scarpa: siamo qui con
lui, oggi, per chiedergli tutto riguardo a una scena tagliata del film,
scomparsa misteriosamente dalla versione finale.

Gillo Pontecorvo, grazie per averci concesso questo momento. Proprio
in questi giorni festeggiamo il 30° anniversario di quello che molti
definiscono il suo più grande successo:
La battaglia di Algeri.
Inizieremmo col chiederle: cosa le manca di più degli anni in cui
lavorò alla pellicola?

Grazie a voi per avermi dato questo spazio.
Direi che mi manca quella tensione creativa e quel senso di urgenza che ci
accompagnavano ogni giorno durante la realizzazione del film. Era un tempo
in cui sentivamo profondamente la responsabilità di raccontare una storia
importante, di dare voce a chi lottava per la libertà. Quel periodo era segnato
da un intenso lavoro collettivo, da discussioni appassionate e da un desiderio
condiviso di trasmettere verità. Oggi, forse, mi manca proprio quell'energia e
quella consapevolezza di trovarsi al centro di un momento così cruciale.

È soddisfatto del modo in cui il mondo ha accolto il suo film? Che cosa
l’ha sorpresa di più? Avrebbe mai immaginato tutto questo successo?

Molto. Però, vi dico la verità, anche se forse correrò il rischio di sembrare
arrogante: prima di qualunque complimento o critica del pubblico, il giudice
più esigente dei miei lavori sono io. Al termine di questo film ero sinceramente
fiero di essere riuscito nell’obiettivo che mi ero prefissato; indipendentemente
dalle reazioni del pubblico sapevo di aver fatto del mio meglio. Mi ha colpito,
tuttavia, l’eco che questa storia – apparentemente circoscritta, specifica – ha
avuto anche in altri contesti. Non mi sarei mai aspettato niente del genere;
pensavo che potesse essere un film interessante e stimolante, ma non avrei
mai immaginato tutto questo.

Il taglio che ha deciso di dare al suo capolavoro è di tipo
documentaristico.Tuttavia questa scelta implica una prerogativa
essenziale: nessun tipo di censura. Eppure sappiamo che non è sempre
riuscito ad aggirare questo vincolo.

La censura è sempre stata un ostacolo per chi, come me, cerca di raccontare
la verità e di dare voce a chi spesso viene zittito. Con
La battaglia di Algeri ho
dovuto fare i conti con vari tentativi di limitarne la diffusione e con la
diffidenza delle autorità, perché il film metteva in luce dinamiche politiche e
sociali scomode, sia per i colonizzatori, sia per alcuni poteri costituiti. Può
avvenire in molti modi, non sempre palesi. Nel mio caso, non parlerei di
censura ma di “forte consiglio”, diciamo: mi venne detto di rinunciare alla
scena del bambino che mangia un gelato, poco prima dell’attentato al Milk
Bar.

Pensando al successo e all’eredità de
La battaglia di Algeri, quanto
ancora le pesa quella rinuncia? È un rimpianto che sente come artista
o come uomo?

Vorrei, innanzitutto, precisare che è stata una scelta fatta a malincuore. Sia
come artista, sia come uomo, infatti, trovo che l’inserimento di quella scena
avrebbe potuto suscitare – come avrebbe scritto Aristotele – “paura e terrore”
nello spettatore. L’utilizzo di questa tecnica narrativa, grazie agli strumenti
visivi ed evocativi del cinema, avrebbe permesso di provocare
pathos e
coinvolgimento nel pubblico, acuendo la drammaticità dell’orrore bellico e
solleticando la coscienza civile dell’opinione pubblica.

Era consapevole della potenza di quella scena quando la scrisse?
Certamente. Le dirò di più:
doveva essere una scena “potente”. Non per il
gusto di esserlo, ma perché raccontava una verità che non poteva che avere
un forte impatto sul pubblico. Volevo che lo spettatore si sentisse a disagio nel
vedere come la violenza possa toccare chiunque, anche l’innocenza di un
bambino.
La scena era ovviamente necessaria per garantire al film il carattere di
oggettività con cui è stato concepito. Non volendo ridurre la lotta per
l'indipendenza algerina a semplice atto di eroismo, abbiamo cercato di porre
l'attenzione degli spettatori sulla problematicità della lotta terroristica in
questo contesto, descrivendone l’impatto sulla vita dei civili.
Poi, mi chiesero, all’ultimo momento, di tagliarla. Il motivo era chiaro: non
contribuiva a rendere un’immagine positiva della resistenza algerina. La
Casbah Film, che ha coprodotto il film, voleva un’opera celebrativa. Fui
persuaso non perché volessi rendere tale il mio film, no: piuttosto, in quel
momento credetti che la scena avrebbe distolto il pubblico dal nucleo centrale
della storia, ossia la liberazione del popolo algerino dal dominio coloniale
francese. E allora acconsentii. Se potessi tornare indietro farei una scelta
diversa.

Le è mai venuto in mente di reinserirla in una versione rinnovata o
estesa del film? Oppure è rimasta solo nella sua memoria e nelle sue
intenzioni?

Sì, ci ho pensato più volte, ma ho scelto, infine, di non reinserirla in una nuova
edizione. Mi sarebbe sembrato di tradire l’autenticità di quel primo film:
La battaglia di Algeri è nato in un preciso contesto storico e sociale e così doveva
rimanere, senza essere ulteriormente rimaneggiato.

Se avesse potuto inserire la scena, crede che le opinioni della critica
nei confronti del film sarebbero cambiate?

Beh, vede, se devo essere sincero, quella scena aveva una forza simbolica
enorme, quasi brutale nella sua semplicità. Mostrare quell’innocenza e, poi, la
violenza che ne segue, avrebbe spinto lo spettatore in un territorio ancora più
scomodo, difficile da digerire, e probabilmente avrebbe inciso ancora più
profondamente il messaggio che volevo trasmettere: in guerra l’innocenza è la
prima vittima.
Ora, se fosse rimasta nel montaggio finale credo che la critica avrebbe reagito
in maniera ancora più accesa. Da un lato, forse, alcuni l’avrebbero giudicata
una scelta troppo crudele, accusandomi di eccessivo cinismo; d’altro canto,
sono convinto che avrebbe rafforzato il realismo e l’impatto politico dell’opera.
In fondo
La battaglia di Algeri ha sempre camminato su quella linea sottile tra
denuncia e cruda rappresentazione. Quella manciata di secondi sarebbe stata,
forse, il simbolo più forte di tutto il film.

Ci può raccontare se qualcuno, all’epoca, ha cercato di difendere la
scena del bambino col gelato insieme a lei?

Molti cercarono di salvare quella sequenza del film dall'eliminazione. Nello
specifico ricordo il direttore della fotografia, particolarmente legato a
quell'immagine, poiché riteneva che fosse rappresentativa della situazione
critica ad Algeri in quegli anni. Ci furono delle discussioni tra me e i miei
collaboratori, in quanto credevamo molto nel film e nel suo linguaggio.
Ovviamente fu dura cedere su qualcosa che ritenevamo importante, ma
eravamo arrivati a un punto in cui fummo costretti a scendere a patti col fatto
che, a volte, soprattutto quando si tratta di argomenti delicati e molto
controversi, bisogna accettare dolorosi compromessi. Ciò nonostante, come
artisti ci siamo sentiti impotenti.

Ha pensato a un’alternativa visiva o narrativa per comunicare la stessa
emozione?

Per quanto la considerassi una scena fondamentale, mi ero già preparato ad
eventuali critiche a riguardo: e infatti sono poi arrivate. In ogni caso abbiamo
cercato di compensare l'assenza di quel momento con altre sequenze di
particolare intensità: la scena in cui le tre donne si preparano prima di
compiere gli attentati; quella finale, in cui i quattro protagonisti sono nascosti
in una casa della casbah dietro una finta parete; e quelle delle esplosioni.
Sono rappresentazioni altrettanto forti e importanti, in grado di comunicare la
drammaticità di uno dei momenti fondamentali del processo di
decolonizzazione. Tragicamente, si è trattato anche di uno dei più cruenti.

Pensa che mostrare l’umanità delle vittime civili avrebbe potuto
"umanizzare troppo” il nemico e confondere il messaggio del film?

Non credo che quella singola scena avrebbe rivoluzionato il film, soprattutto
per quanto riguarda il tema dell’“umanità” delle vittime civili, un filo rosso già
presente in molte, se non in tutte, le sequenze della pellicola.
La battaglia di
Algeri è un film che si rivolge a tutti: le crudeltà e i disagi rappresentati non
sono limitati agli algerini, ma riflettono le condizioni vissute da tutte le vittime
civili, in qualsiasi guerra o rivoluzione. Pur raccontando uno specifico
momento storico, il nostro obiettivo era anche quello di trasmettere emozioni
universali, condivise da chiunque abbia vissuto un conflitto.
Quanto al rischio di “umanizzare troppo” il nemico, credo sia opportuno
ricordare che da entrambe le parti c’erano esseri umani, “buoni” e “cattivi”,
come si suol dire; e le colpe di uno non possono essere addossate a tutti, così
come l’eroismo di pochi non deve essere accreditato a molti. Questo, almeno,
era ciò che mi ero ripromesso di mostrare.

Certamente.
Credo che purtroppo il nostro tempo sia agli sgoccioli. La ringraziamo
profondamente di averci dedicato questo tempo. È stato illuminante
poter tornare sulle tracce di un film così importante e credo che
conserveremo tutti il ricordo o, almeno, il senso delle sue parole.
Spero ci incontreremo di nuovo presto, in occasione del suo prossimo
progetto.
Grazie ancora, le auguriamo una buona serata.

Grazie infinite anche a voi.

Liceo classico e musicale “C. Cavour” di Torino, classe 5A