racconti
Lo Schianto
Giuseppe Bottigliera è un operaio emigrato dalla Basilicata a Torino, uomo semplice, solitario e riflessivo, segnato dalle difficoltà della vita e da una forte coscienza sociale. Partecipa a un dibattito sindacale dove, frustrato dall’ipocrisia e dall’indifferenza verso i problemi degli operai come lui, esplode in una rabbiosa invettiva che viene derisa dai presenti. Umiliato e sopraffatto, Giuseppe decide di compiere un gesto estremo: si introduce in una locomotiva ferroviaria e la mette in moto con l’intento di schiantarsi, come ultimo atto di protesta e disperazione. Durante il tragitto, sopraffatto dai ricordi e dal dolore, scrive una lettera alla madre in cui esprime tutto il suo tormento e il desiderio che il suo gesto serva a svegliare le coscienze, a dare voce a chi è stato dimenticato. Il racconto si chiude sul ritmo dei binari e del cuore, verso uno schianto che è insieme fine e grido disperato.
CREDITI
Lo schianto
Giuseppe Bottigliera era un uomo di bassa statura, con una corporatura rotonda,
segno di tanti anni di fatica e cibo semplice. Il viso, tondo e paffuto, era circondato da capelli
castani, ormai radi e un po' spettinati, come se fossero l'ultima delle sue preoccupazioni. Gli
occhi, piccoli e vivaci, tradivano una curiosità che non si spegneva mai, nemmeno nei
momenti più difficili: il suo sguardo, nascosto dietro occhiali spessi, scrutava il mondo con
attenzione, come se ogni dettaglio potesse rivelare qualcosa di importante.
Originario della Basilicata, era emigrato a Torino in cerca di lavoro e di una vita
migliore. La sua parlata, con quell’accento marcato, rivelava le sue origini meridionali, ma il
suo comportamento era quello di chi si è adattato alla vita cittadina. Non amava essere al
centro dell'attenzione, preferiva rimanere nell'ombra, osservare e ascoltare. La sua
solitudine non era frutto di tristezza, ma una scelta consapevole: aveva imparato che, a
volte, stare in disparte permette di cogliere informazioni che ad altri sfuggono.
Nonostante l’apparenza modesta, Giuseppe possedeva una mente acuta e una capacità di
analisi fuori dal comune. Ascoltava le lamentele dei colleghi con attenzione, senza mai
interrompere, e rifletteva su ogni parola. Quando parlava, lo faceva con calma e precisione,
scegliendo le parole giuste. La sua curiosità lo spingeva a cercare soluzioni anche nei luoghi
più inaspettati e la sua determinazione lo portava a mettere in pratica ciò che aveva in
mente, anche quando le sue idee sembravano folli.
Arrivò in via Sacchi, vicino al salone dove si stava svolgendo il dibattito. Già da fuori
sentiva le discussioni e non vedeva l’ora di entrare per criticare le idiozie dei suoi colleghi. Il
suo orologio segnava le 16.30 ed era quasi buio. Passando dal portone principale, si diresse
all’interno della sala del convegno. Alcuni colleghi erano seduti attorno a un grande tavolo di
legno, altri erano in piedi accanto alla finestra, fumavano. Nonostante si sentisse molto
coinvolto sui temi di cui si stava discutendo - vista la sua situazione precaria - continuava a
tenere basso lo sguardo. Non era nemmeno riuscito a sedersi, che già sentiva i soliti discorsi
vuoti sulla crisi dei sindacati. Spazientito, giocava con delle monete passandole tra le mani
freneticamente. Più era deluso dalle argomentazioni, più le muoveva velocemente. I discorsi
scorrevano e Giuseppe, oltre ad essere inorridito, ne rimaneva distante per la loro
complessità. Talvolta, si faceva scappare delle smorfie di rabbia. Non aveva intenzione di
intervenire, finché un partecipante - appoggiato al muro con la pipa in bocca - non condannò
le azioni dei sindacati non autorizzati, attribuendo agli operai immigrati la responsabilità
dell'accaduto. Giuseppe si alzò di scatto, facendo ribaltare la sedia, e cominciò a sbraitargli
addosso. Dallo spavento, tutti si immobilizzarono, ascoltando quello che aveva da dire;
nessuno, tuttavia, lo prese seriamente. I suoi discorsi erano sconnessi, incomprensibili e, a
tratti, ilari. Il suo dialetto non faceva che renderlo inadatto a quel contesto, e chiunque
all’interno della sala rideva di lui, sminuendolo. Dalla rabbia strinse ancora più forte le poche
monete rimaste nei palmi, richiamando involontariamente l’attenzione sulle sue mani goffe e
sudate, provocando nuove risate tra i presenti. Continuava a urlare, ma ormai le sue parole
erano diventate del tutto incomprensibili. Sentendo ancora ghigni e scherni, non poteva che
sentirsi deluso: a ridere di lui erano persone del suo stesso tessuto sociale, con le stesse
identiche difficoltà economiche. Fu il culmine della sua ira. Annunciò in modo velato quello
che era il suo piano: “Invece che tutte queste stupide parole, io agirò. Farò qualcosa che non
vi dimenticherete mai, che non potrete immaginare in nessun modo! E lo farò da solo! Non
ho bisogno che mi ascoltiate, perché io agisco, e per farlo, non ho bisogno del vostro
supporto.” Sbatté il pugno sul tavolo e se ne andò con passo impacciato, lasciandosi alle
spalle le risate.
Era sera quando gli operai delle ferrovie di Torino lasciarono il posto di lavoro per
tornare nelle loro piccole e squallide abitazioni. Giuseppe, dopo aver sentito parole e
dichiarazioni dell’assemblea, comprese chiaramente che quello che i compagni definivano
“vivere”, in realtà, era solamente un modo di dire, un ingenuo tentativo di mascherare una
situazione più che precaria. Forse era una punizione divina che i “terroni” emigrati come lui,
dovevano scontare o, come tanti altri, era proprio destinato a quella vita? Il pover’uomo
sgattaiolò tra le carrozze del treno evitando gli occhi dei colleghi. Cominciava ad essere
veramente esausto per la sua situazione lavorativa e personale. A un tratto, molte voci gli
iniziarono a ronzare nella testa: erano quelle dei sindacalisti che avevano parlato
all’assemblea ma non solo; esse si confondevano e sovrapponevano ad altre… voci
familiari, ricordi dal passato, pianti, grida e, infine, parole più comprensibili e taglienti
affiorarono. Le riconobbe subito, erano quelle di sua madre, pronunciate quando il padre
morì sul posto di lavoro: «Ricorda, Giuseppe… tuo padre non è morto per niente. Ogni suo
respiro, ogni suo callo, ogni goccia di sudore è ora dentro di te. Anche quando il mondo ti
sembrerà sordo e crudele, tu vai avanti. Anche se non capisci dove ti porta la strada. Perché
lui… lui è quella strada.»
Giuseppe allora si fermò, scosso, l’odore del carbone bruciato dei forni a ridosso
delle locomotive parve sfumare nell’aria, come se il mondo gli concedesse un attimo di
tregua. Gli occhi si fecero lucidi. Quella frase, detta con la voce spezzata dalla fatica e dal
lutto gli era rimasta incastrata in qualche angolo remoto dell’anima e ora riemergeva. Quel
nostalgico momento, però, venne strappato via di colpo da un fascio di luce violenta che gli
esplose in faccia: un uomo, alto e avvolto in un pesante giaccone scuro, gli si avvicinò.
Forse lavorava lì come custode o controllore del turno notturno. Una torcia tremolava
leggermente nella sua mano, ma la voce era ferma: «Ehi tu! Che ci fai qui?»
Giuseppe si irrigidì, il cuore prese a battergli in gola come un martello impazzito,
cercò di non sembrare impaurito; il suo arrivo fece svanire definitivamente il pensiero di quel
ricordo. «Io ho… ho dimenticato una cosa… in una carrozza…una borsa, con dentro le
chiavi di casa…» Una bugia improvvisata e goffa, che sperava bastasse.
L’uomo abbassò leggermente la torcia e rispose: «Va bene… sbrigati, però. Non è un
posto per passeggiare, questo.»
Giuseppe annuì, chinó lo sguardo per non tradire il tumulto che aveva dentro e con
passo incerto salì sulla carrozza: il metallo freddo della maniglia sotto le sue dita, il buio
intorno che sembrava risucchiarlo; non aveva idea di cosa avrebbe fatto, ma sapeva che era
il momento di agire. Appena dentro sbarrò la porta che si richiuse con un gemito e un
silenzio pesante rimbombò. Tremante, si lasciò cadere su uno dei sedili, scoppiando in
lacrime. Le spalle sobbalzavano, le mani sul viso non bastavano a contenere la rabbia e la
disperazione che fluivano in lui. Rivedeva suo padre, il volto annerito dalla fuliggine, il corpo
ricomposto e tumefatto sotto un lenzuolo sporco, la madre che stringeva quella mano dalle
dita gelide. Ricordava il giorno del funerale, la folla muta, le frasi sussurrate con pietà.
Si alzò piano, come se qualcosa di antico lo stesse guidando. I suoi passi
risuonavano nel vuoto della carrozza mentre si avvicinava al posto del conducente; le leve, i
comandi, il vetro annerito, tutto sembrava aspettarlo. Per un istante si voltò e vide fuori il
fascio di luce allontanarsi. Si chinò, prese fiato, poi si mise in posizione. Azionò tutte le leve
per accendere la vettura e, pensando solo al suo dolore, iniziò a fare retromarcia.
Il convoglio si mosse, prima un tremore, poi un lamento metallico, l’uomo con la torcia se ne
accorse, tentò di entrare ma le porte erano bloccate. Vide solo il treno che spariva nel buio
della notte.
Non c’era più nessuno a fermare Giuseppe: solo su quei binari, le raccomandazioni
della madre tradite, la città dormiente e quella stazione in fondo alla linea, dove tutto era
cominciato anni prima con il suo arrivo dal Sud, e dove tutto, forse, doveva finire. Uno
schianto. Sì, schiantarsi definitivamente, per ripagare quella vita che l’aveva intrappolato,
costretto all’immobilismo, come tutti gli altri compagni risucchiati ormai dal progresso che se
ne fotte della vita tua e di quelli come te. Sentì il bisogno di scrivere alla madre e così,
mentre nessuno ormai poteva fermare quella locomotiva, butto giù il suo folle dolore e cercò
di spiegare almeno a lei a cosa potesse servire questa vendetta di ferro.
«Fior,
mentre leggi queste parole, io sto sopra ‘sta locomotiva che corre come una bestia
impazzita. Non si ferma… e manco io mi fermo più. Lo so che ti strapperò il cuore ma tu mi
hai fatto uomo onesto, e l’onestà oggi non basta. Lavoriamo come cani, Fior, e quelli che
dovrebbero difenderci -i sindacati - pensano solo ai fatti loro.
Allora io ho detto basta. Questo treno lo porto dritto a schiantarsi. Così, magari, coil botto,
qualcuno si sveglierà. Forse capiranno che non siamo carne da fatica.
Il treno va, Fior, trema tutto. Sento il suo rumore perfino dentro le ossa. E mi pare di sentire
pure il tuo cuore, là, lontano… ogni colpo di ruota sul ferro è come un battito tuo.
Tum…tum… tum…come quando stavi col grembiule alla finestra quando rientravo tardi.
Ricordo quella sera d’inverno, che non c’era niente in casa. Solo un pezzo di pane secco e
due uova. E tu cantavi piano mentre cucinavi, Mamma mia dammi cento lire… Io ridevo,
anche se avevo fame, ridevo di fame. Ecco, Fior: io di ridere ho smesso da un pezzo.
Non sono un matto, Fior. Sono sempre tuo figlio, stanco e solo. E ti voglio bene mamma,
non ti immagini quanto.
Perdonami.
Tuo figlio.»
Tum… tum… tum.