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I miracoli Piano. Cronache dal futuro
Nel 2070, a vent'anni da una crisi climatica che ha sconvolto l'Europa, nella Fondazione Renzo Piano si celebra il ruolo avuto dall'architettura nella soluzione delle emergenze vissute da alcune città europee: Oslo, stretta in una morsa di ghiaccio, Parigi, soffocata in una cappa di nebbia e polveri sottili, Genova, interessata da uno sviluppo aggressivo e senza controllo della vegetazione. I casi riportati presentano un elemento in comune: sono tutti collegati a progetti di Renzo Piano di cui una dimensione era rimasta lettera morta. È la sera in cui il passato e il presente si incontrano per celebrare un risultato straordinario.
CREDITI
I miracoli Piano
Cronache dal futuro
Nel 2070, a vent'anni da una crisi climatica che ha sconvolto l'Europa, nella
Fondazione Renzo Piano si celebra il ruolo avuto dall'architettura nella soluzione delle
emergenze vissute da alcune città europee: Oslo, stretta in una morsa di ghiaccio,
Parigi, soffocata in una cappa di nebbia e polveri sottili, Genova, interessata da uno
sviluppo aggressivo e senza controllo della vegetazione.
I casi riportati presentano un elemento in comune: sono tutti collegati a progetti di
Renzo Piano di cui una dimensione era rimasta lettera morta. La riscoperta di tali
elementi progettuali ha fatto la differenza per superare la crisi.
Nel grande salone della sala conferenze della Fondazione Renzo Piano il pubblico
attende con una certa ansia che qualcuno inizi la celebrazione. È la sera in cui il
passato e il presente si incontrano per celebrare un risultato straordinario: molti tra gli
edifici storici delle città più importanti d’Europa, un tempo abbandonati a causa della
grave crisi climatica del 2050, hanno ritrovato nuova vita.
In questa giornata si commemorano i giovani architetti che, con le loro scoperte, li
hanno portati alla rinascita. Sul palco si intravedono bozzetti, documenti e immagini
che fanno parte di un passato lontano e che, dopo essere stati ignorati, sono invece
diventati idee vincenti, utili per trasformare il futuro in qualcosa di inimmaginabile.
Una lunga pausa interrompe improvvisamente il brusio del pubblico. Poi un uomo si
avvicina al microfono e inizia a parlare:
Un pomeriggio di quel terribile 2050 ero insieme ai miei amici per le strade ghiacciate
di Oslo alla ricerca di angoli segreti. Fu così che arrivammo sulla riva del mare, davanti
al Museo di Arte Contemporanea Astrup Fearnley, immerso nel ghiaccio e nella neve,
abbandonato come se il tempo si fosse fermato. Una serie di divieti erano appesi tutto
intorno, e ciò rendeva il posto ancora più inquietante e affascinante. Ci avvicinammo
all'ingresso, provammo a forzare la porta e, dopo alcuni tentativi, riuscimmo a
penetrare in quel posto. All’interno, l’aria era fredda e immobile, la struttura congelata
scricchiolava intorno a noi. Cominciammo a curiosare temendone il crollo.
Percorrendo i corridoi trovammo opere meravigliose ancora integre: capimmo che il
museo e l’arte che vi era racchiusa erano da salvare a tutti i costi e lanciammo un
appello. Nei giorni seguenti la notizia fece il giro del globo e a rispondere fu proprio la
Fondazione Renzo Piano che scandagliò il suo archivio nella speranza di trovare una
soluzione per salvare l’edificio dai ghiacci. Fu un giovane tirocinante a recuperare fra
le carte dell’archivio il progetto di un sistema per mantenere costante la temperatura
all’interno della struttura. Il progetto ritrovato di Piano, utilizzando i principi della
geotermia, prevedeva la raccolta di parte delle acque di profondità provenienti dal
fiordo, il loro passaggio attraverso un sistema di tubi interrati ove sarebbe avvenuto lo
scambio termico e la ricanalizzazione dell'acqua riscaldata verso le tubazioni presenti
all'interno del museo. In quelle carte c’era la soluzione per il riscaldamento dell'intero
museo, senza fonti energetiche a carburante. Un involucro esterno del fabbricato
avrebbe poi contribuito a mantenere le condizioni climatiche interne. Ai tempi del
progetto esecutivo, non si era ritenuto necessario procedere alla piena realizzazione
di quell’impianto, ma a quel punto le autorità e lo studio di Piano procedettero alla
finalizzazione del progetto originario.
Da allora, in grado di resistere senza problemi alle condizioni climatiche avverse, il
Museo di Arte contemporanea di Oslo risplende ancora di luce propria! Senza quel
giovane architetto e le carte dimenticate del progetto di Piano, questo miracolo non
sarebbe avvenuto!!”
La sala reagisce alla testimonianza con un lungo applauso. La parola passa a un
secondo oratore:
"Era il 2050 quando le città europee furono sommerse da smog e nebbia. Dovevamo
portare sempre le mascherine, anche in casa, perché l’aria era tossica! Ma le cose poi
si risolsero. Il miracolo partì dal Centre Pompidou e da uno dei suoi geniali progettisti:
Renzo Piano.
Il progetto originario del Centre Pompidou era quello di un gigantesco ‘polmone verde’,
capace di pulire l’aria di tutta Parigi. Gli schizzi iniziali prevedevano, nell’ottica di
promozione di un’ecologica innovazione, che oltre ai grandi impianti esterni poi
realizzati, fossero previste anche condutture, complessi sistemi di filtri e ventole
dedicati alla pulizia dell’aria. Turbine silenziose e sensori ambientali dovevano
monitorare e regolare il ricircolo di grandi quantità d’aria aspirata dalla piazza
antistante, purificandola prima di reimmetterla nell’ambiente urbano circostante.
L’amministrazione parigina, pur riconoscendo la bontà del progetto, aveva
inizialmente rinunciato a quella variante progettuale, a causa della mancanza di fondi
pubblici. Ma di fronte alla gravità della situazione, i giovani architetti del dipartimento
di urbanistica di Parigi insistettero per sviluppare il progetto iniziale di Piano. Dopo
alcuni mesi dall’inaugurazione del nuovo Centre, i livelli di inquinamento si ridussero
drasticamente e finalmente potemmo togliere quelle odiate mascherine!”
Il pubblico applaude entusiasta, ed è il turno di un ultimo oratore. La sua testimonianza
è questa volta una lettera:
“Caro Nonno,
oggi ho sentito il bisogno di scriverti. Forse perché il mondo continua a cambiare, o
forse perché, in fondo, tu non te ne sei mai andato davvero. Ogni giorno, in quello che
faccio, ti sento accanto. E ora che sono tornato a Genova, la tua presenza è ovunque.
Passeggiando tra i caruggi, con il mare che scintilla tra le case e il vento che sa di
salsedine e storie antiche, mi sei venuto in mente. E ho sentito che dovevo parlarti.
Dirti che sono tornato, che ti porto con me. Che ogni mio progetto nasce anche dal
tuo sguardo.
Genova è cambiata. È più viva, più verde, più consapevole. Ma c’è un luogo che, più
di tutti, mi parla di te. La Biosfera. Durante gli anni della crisi climatica le piante
l’avevano completamente ricoperta. I rampicanti si erano intrecciati alla struttura, le
foglie oscuravano i vetri, le radici spingevano verso l’alto. Sembrava una ribellione.
Un atto naturale, potente. Come se la natura si fosse stancata di aspettare e avesse
deciso di riprendersi il suo spazio. Ma non era distruzione, come invece era avvenuto
in tutto il resto della città. Era una richiesta d’asilo. Quelle piante non l’avevano
aggredita. Si erano avvolte intorno a lei come a cercarvi rifugio. Perché quella bolla
era stata costruita proprio per loro. Renzo Piano l’aveva pensata così: non come
oggetto da osservare, ma come un gesto. Un luogo in cui la natura potesse smettere
di difendersi, e sentirsi accolta.
Sei stato tu a scoprirlo! Tu c’eri. Me lo raccontavi sempre. Eravate in cinque. Cinque
ragazzi appena usciti dall’università, pieni di sogni. E tu, il più giovane, fosti mandato
a sistemare l’archivio nello studio di Piano. ‘Una punizione’, pensavi. E invece fu lì che
trovasti quel taccuino.
Era un suo diario. Fragile, scritto a mano, pieno di schizzi, pensieri. In una pagina in
particolare scriveva: ‘La Biosfera è per loro. Per chi si ribella perché ha paura. Per chi
cerca un luogo di cui potersi fidare’. Schizzi progettuali e pensieri tecnici avvenieristici
illustravano quel desiderio.
Quelle parole ti spinsero a realizzare il progetto di riqualificazione della Biosfera che
fino ad allora era rimasto lettera morta.
La puliste. La liberaste dalle foglie, rinforzaste la struttura, curaste ogni giunto con
pazienza e costruiste ciò che era stato pensato. Solo rispetto. Solo cura: un “Cuore
Verde”, in grado di riprodurre il primo respiro vitale di un ecosistema e di perpetuarlo.
Attraverso sensori e algoritmi ispirati alla fotosintesi, questo cuore distribuiva luce,
acqua e aria alle piante circostanti, creando un microclima in costante equilibrio.
L’intero involucro era progettato per essere un sistema bioclimatico capace di
autoregolarsi e sopravvivere pressoché a tutto grazie a una rete di microprocessori
ambientali collegati al nucleo.
Grazie al vostro coraggio nel credere a un progetto dimenticato, ora i visitatori
camminano ancora vicino alla Biosfera rinata, i bambini osservano con occhi
spalancati i colibrì che si muovono tra le foglie. E, al centro in una teca trasparente,
c’è ancora quel taccuino. La memoria di tutto.
Io ci vado spesso. Mi siedo lì, guardo la luce che filtra tra le fronde. E ti sento. Come
quando da bambino mi spiegavi che l’architettura non è solo forma, ma ascolto,
memoria, fiducia.
Tuo, Elia”.
Nel silenzio commosso che segue, qualcuno si alza e legge un estratto di una vecchia
intervista a Renzo Piano:
«Quando ho compiuto sessant'anni [...] feci un viaggio in Giappone e visitai il tempio
di Ise. Sa perché è importante il tempio di Ise?
Viene distrutto e rifatto ogni vent'anni. In Oriente l'eternità non è costruire sempre, ma
di continuo. I giovani arrivano al tempio a vent'anni, vedono come si fa, a quaranta lo
ricostruiscono, poi rimangono a spiegare ai ventenni: è una buona metafora della vita.
Prima impari, poi fai, poi insegni.
Sono i giovani che salveranno la terra. I giovani sono i messaggi che mandiamo a un
mondo che non vedremo mai. Non sono loro a salire sulle nostre spalle, siamo noi a
salire sulle loro, per intravedere le cose che non potremo vivere».
I tre oratori insieme annuiscono sorridendo.