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Il Redattore viaggiante
Il Redattore viaggiante
Gino Piva è stato sindacalista, socialista, poeta e giornalista. Un redattore viaggiante. Amava il giornalismo come una pratica, non come teoria e tecnica. Quest’anno si celebrano i 150 anni dalla nascita di questo grande personaggio non solo della provincia di Rovigo ma anche dell’Italia intera. Italia che lui ha conosciuto a fondo grazie al suo lavoro di politico e giornalista che lo ha portato in giro per il Belpaese da Rovigo ad Alessandria, da Ravenna a Cesena, da Trieste a Pola, nelle terre irredente, soggette all’Austria. E poi ancora a Torino e Carpi. I capi socialisti lo scelgono per la sua penna acuminata e gli affidano la guida di testate dai nomi evocativi: L’idea nuova, Il proletario, Il grido del popolo, Controcorrente, Luce. Quindi diventa corrispondente per il Resto del Carlino durante la Prima guerra mondiale, seguendo tutto il conflitto, dal fronte occidentale a quello orientale, fino al termine delle ostilità. Un girovagare di cui lui ne era ben consapevole, dal momento che i suoi articoli spesso venivano firmati con lo pseudonimo di Remengo, ossia vagabondo, errante. E proprio nelle sue cronache dal fronte, da grande cronista, ci dà l’impressione del movimento verso l’inaspettato nell’incessante corsa all’evento per la notizia interessante: come si vive nelle trincee, come si mangia e si veste, che cosa e accaduto o che cosa sta per accadere; con quale umanità si ha a che fare e in quale ambiente. Piuttosto del quadro lo schizzo, più cronaca che storia, più curiosità che contemplazione, più inchiesta che commento. Non letteratura, ma cinematografia. La vita girata come se fosse un film. Gino Piva è di quei non frequenti giornalisti che sanno viaggiare per il gran pubblico del giornale il quale, a quei tempi, sembrava quasi un film in carta stampata che ogni mattina si rinnova sotto gli occhi di tutti. Piva non dà il senso del movimento soltanto, ma della vertigine, tanto egli è pronto, rapido, irruente, inesauribile. In lui le virtù dello scrittore si ravvivano, non spengono quelle che sono le doti essenziali del giornalista. Riesce ad informare dell’avvenimento e a commentare una situazione descrivendo, raccontando artisticamente, attraverso una sensibilità propria. Non c’è per lui scarto, o cambio di marcia, tra dignità di scrittura e resoconto di giornale. Si muovono nella stessa dimensione il ritratto, lo squarcio di costume, l’intervista col personaggio significativo: vengono trattati nello stesso momento con scrupolo narrativo e rigore d’informazione. Procede controcorrente, censurando il “barzinismo” e scrivendo reportage densi e profetici, come un’intervista al sergente Benito Mussolini nel 1917.
Nato a Milano il 9 aprile del 1873, poi trapiantato a Rovigo, Gino Piva è figlio del generale garibaldino Domenico e della colta Carolina Cristofori (a cui l’amico e poeta Giosuè Carducci dedicò le Primavere elleniche). Piva è tra i protagonisti degli albori del socialismo polesano. E’ un rivoluzionario romantico. A 25 organizza il primo sciopero generale contadino del Polesine. Il 1898 è un anno di tumulti ed è costretto a rifugiarsi a Parigi, inseguito da un mandato di cattura per aver “eccitato all’odio tra le classi“. Torna, sta sei mesi in galera ma è già un leader che rincorre il sogno socialista al fianco di Nicola Badaloni, Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi e Claudio Treves. Si scontra con Giacomo Matteotti che lui considerava un “milionario” che gli stronca, a suo dire, la carriera politica. Finita la prima guerra mondiale Gino Piva si ritira a vita privata nel veneziano, senza aderire al Partito fascista. é vittima di agguati e bastonate. Se non gli capita di peggio è per la protezione di un ex collega che è tra i fondatori dei fasci, Pino Bellinetti. Nel ritiro sul Brenta si apre la sua ultima stagione. Sono gli anni dei racconti, dei saggi storici, delle poesie sociali, scritte in dialetto polesano. Muore nel 1946 accarezzando la camicia rossa del padre che si era guadagnato un busto al Pincio per il suo ardimento. Ora Gino Piva riposa nel cimitero di Rovigo.
Carlo Cavriani